Così la droga mi ha salvato da Gesù

Cap1.

Quella che state leggendo è una storia vera. Una storia che ho vissuto in prima persona.
Parlarne, per me, è difficile. Cercare di richiamare un ricordo finisce per evocarne troppi, che si tirano l’un l’altro,  vividissimi… Ma mi sono fatto forza, e ho impugnato la penna per raccontarvi la mia storia, così che sappiate i rischi, così da poter evitare di doverla vivere a vostra volta: per scongiurare la possibilità che altri debbano passare quello che, quasi senza accorgermene, mi sono trovato a passare io.

La mia storia è quella di un percorso, tortuoso ma inesorabile, verso la luce… una luce accecante, invadente, insopportabile. Una luce che alla fine aveva occupato ogni mio spazio, ogni istante del mio tempo, ogni riposto incavo della mia anima.

Iniziò quattro anni fa; facevo una vita di quelle che chiamano normali… anche se, visti i tempi, sarei più sincero a definirla fortunata:  avevo un lavoro fisso, in un bar carino al limitare del centro storico, abbastanza centrale da partecipare della vita cittadina, abbastanza defilato da non essere troppo affollato o troppo caro.

Pagato non malaccio e, per il resto, non m’importava troppo di essere lì piuttosto che altrove. A volte la proprietaria alzava la voce: il marito la tradiva, pare, e lei di tanto in tanto scoppiava e la buttava tutta su di noi, a me dava fastidio perché non sopporto quelli che gridano, ma bastava aspettare qualche minuto e la sfuriata si esauriva. Niente di drammatico insomma.

Passavo le giornate, mi guadagnavo la pagnotta, ogni tanto capitava qualche cosa di interessante, ma in genere le giornate si susseguivano identiche e rapide, volavano via come i fogli del calendario.

Quando avevo tempo, se gli amici erano al lavoro e non ci si poteva vedere, mi ingozzavo di vecchi film pagati niente, affondato in un divano vecchio, del quale, mi si lamentava, si poteva sentire ogni molla – certo, forse a sedervisi come capita: ma siccome io ero un abitudinario, esisteva in realtà una angolazione privilegiata, plasmatasi sulla mia sagoma, di una comodità squisita: da far invidia agli ultimi ritrovati dell’ingegneria ortopedica.

Non mi dispiaceva la mia vita, anche se in realtà non succedeva molto. Vedevo spesso i ragazzi, che poi erano gli stessi dai tempi di scuola, la sera; sembrava che non succedesse molto neanche a loro, si parlava di film o di sport o di ragazze, che di tanto in tanto entravano e uscivano dalle nostre vite, come i personaggi dei film o dello sport.

Però, senza che da principio nessuno se ne accorgesse, cominciò ad esserci qualcosa di nuovo nelle nostre serate.

Ci fu che Stefano iniziò a rabbuiarsi sempre di più. In un primo momento, come ho detto, fummo forse un poco disattenti: non ci accorgemmo che non partecipava alla solita discussione miscellanea, allegra e scanzonata; sembrava si annoiasse.

Divenne più evidente quando incominciò a gettare assiduamente lo sguardo verso gli angolini vuoti della stanza; poi persino a sbuffare alle battute più sceme, che fino al passato recente non aveva mai sprezzato.  Di tanto in tanto addirittura disertava, fornendo scuse malassemblate.

Una sera Stefano ed io camminavamo insieme verso casa, non si abitava lontano era capitato il caso raro che la bellezza della serata vincesse la nostra pigrizia e ci inducesse a lasciare le auto nei garage.

Camminando, non dicevo niente, e continuavo a ispezionare con la coda dell’occhio in direzione di lui, che trascinava il passo a capo chino, come avvolto in un nuvolone di pensieri.

Mentre scendevamo per un viale, il calderone, il chissà cosa che borbottava dentro di lui traboccò improvvisamente: rallentando nel camminare e rivolgendomi uno sguardo fisso ma un poco obliquo mi domandò: “allora, che ne pensi?”

Nonostante il suo tono un po’ spocchioso e il precedente, sgradevole silenzio non invitassero ad essere cortesi, capii all’istante che quella era l’occasione che un po’ tutti attendevamo per capire cosa gli frullava in quella zucca vuota. Gli risposi dunque con garbo: “…di cosa?”

“Di questo, di queste serate…” Accompagnava le parole, cariche di convinzione ma calme, con una smorfia di stizza e barocchi gesti rotanti della mano: “…di questo chiacchierare sempre uguale, sempre uguale a sé stesso, di questi continui discorsi inutili…”

Mi aveva preso un po’ in contropiede “Ma non… E’ sempre stato così, no?” Mi accorsi di essere inciampato, e avergli dato in parte ragione. Vabbè. “Non mi sembrava che ti desse così fastidio la nostra compagnia.”

“Non siete voi, voi siete i miei amici, voglio dire… Ma a volte mi sembra che non ci siate, che siate addormentati.”

“Che vuoi dire?”

“Mi sembra che siate addormentati… Che viviate nell’aria. State lì a bere una birra e a scherzare, uscite con ragazze di cui in fondo non mi pare che ve ne importa molto, a parte Umberto con Marta che vabbè, e insomma, siete lì che vivete nella superficie delle cose. Vivete una vita di superficie.”

L’espressione mi colpì: era interessante, quasi elegante, quasi letteraria sulla bocca del buon Stefano, personaggio che all’eredità gloriosa della nostra cultura umanistica preferiva quella di Carlo Conti. Quasi elegante, quasi letteraria. Quasi straniera.

L’istinto mi suggerì di aguzzare le orecchie.

“Ah.” Dissi semplicemente. Lanciato com’era, la mia risposta vaga lo spiazzò. Tacque per qualche istante.

“…Allora, che ne pensi?” Disse, a riattizzare una conversazione che evidentemente aveva a cuore.

“Non saprei…” Ed, effettivamente, non sapevo. Non capivo proprio che cosa volesse dire con quelle parole, e forse manco m’importava; ma mi rendevo conto che arrivato a questo punto dovevo arrivare in fondo, farlo parlare, cercare di fargli sputar fuori il rospo. “A me sembra ok. Cioè, cosa vorresti dire “di superficie”?”

“Voglio dire” rispose senza esitazioni: evidentemente la domanda era quella giusta! “che sembra che vivete e non sapete che vivete a fare. State lì ogni giorno . E’ vita, forse, ma non è certo la Vita vera” – sì, con la V maiuscola, resa visibile e quasi palpabile dalla solenne veemenza dello scandimento.

“E allora scusa questa vita vera che sarebbe?” Dissi con impazienza simulata, per rendere la cosa più credibile ed assicurarmi che svuotasse il sacco fino in fondo.

Al sentire questa domanda, il suo viso cambiò in un istante, passando dalla durezza ad una sorta di paternale comprensione, che sembrava preparata, come se avesse fatto pratica.

“Anche io ho vissuto questa vostra vita di superfice” disse, senza rendersi conto di quanto paresse ridicolo con quel rimembrare un passato remoto che in realtà era quasi il presente, “ma grazie al Cielo… sono rinato, sono rinato ad una nuova vita, una vita seria e piena di significato. Ricordi Palmira?”

“Ma chi, Palmira-gambe-storte?”

“Sì-cioè-no, cioè quella là, a parte che comunque non è vero che ha le gambe storte ma comunque” “Ma non avevi detto che volevi mollarla, tipo… mesi fa?” “…Forse ho detto così, ma non volevo… E anche se avessi voluto… Lei mi ha fatto capire, mi ha cambiato. Mi ha mostrato che non vivevo, e mi ha mostrato la vera vita. Vera.”

Finalmente credetti di aver capito.

“Ma che sei stato…?”

“Ho ascoltato la Parola, e Lei mi ha ridato la vita! La vita vera!” esclamò infine, imbarazzato e commosso.

Non avevo niente da dire. Era un momento strano e sorprendente: non m’aspettavo che un ragazzo tranquillo e leggero come egli era sempre stato potesse essere improvvisamente posseduto da un simile fervore. Guardavo a terra, vicino ai suoi piedi. Pure il marciapiede sembrava in imbarazzo.

“Vieni anche tu!”

“…Cosa?”

“Vieni a vedere!”

“Ma vieni dove?”

“Al gruppo, dove vado io! Dài, vieni, una volta sola, tanto per vedere com’è! Ti piacerà. Ne ho parlato con te per primo, dei ragazzi, perché sapevo che tu avresti capito.”

“…”

“Allora?”

“ ’Bene…”

“Grande! Ero sicuro che tel’accollavi! Allora dai, ti dò un colpo di telefono mercole e ci organizziamo.”

“Mercoledì, vabé. Ok allora, io devo girare di là adesso…”

“Ok. Allora mercoledì: ci conto!”

“Va bene! Mercoledì. Ciao!”

“Ciao!”

Cap2.

Il mercoledì mi recai alla sede del “gruppo”, al pianterreno di una palazzina bassa dall’aspetto qualunque, ospitante per il resto un paio di appartamenti.

Entrando dalla porta semiaperta, ero in grande imbarazzo. Stefano non mi aveva informato praticamente di nulla men che la data e il luogo, insistendo solo sul carattere rilassato (“siamo una famiglia!”) della faccenda, per cui nel dubbio avevo optato per un maglione verde scuro, forse confidando in qualche sua proprietà mimetica.

C’erano tante persone, vestite in modo vario e piuttosto colorato, che chiacchieravano a gruppetti intorno a delle sedie disposte in cerchio, dove alcuni già sedevano. Tutti erano molto vivaci, sorridenti; per la maggior parte erano giovani.

Stefano mi venne incontro, invitandomi ad accomodarmi e posare le mie cose su una sedia pieghevole, alla sua destra. Immaginavo di venire subito notato ed additato come “estraneo”, illuminato dal feroce riflettore dell’attenzione generale e sottoposto ad un sorridente e terrificante quarto grado su chi fossi e cosa facessi; infine, mi immaginavo subissato da una cascata di zuccherosi “benvenuto!”.

Fui sorpreso dallo svolgersi sereno della cosa. Non ero trattato con freddezza, ma neanche oggetto di particolare attenzione. Ogni tanto qualcuno, avvicinatosi a Stefano, mi si presentava, e continuava poi a parlare con lui e con me come se ci si conoscesse da sempre, senza farmi domande.

Tutti si sedettero quando fece il suo ingresso nella stanza un uomo sui sessanta, di statura non alta, i capelli bianchi lanciati da lato a lato del cranio tipo ponte di Brooklyn a celare la di lui calvizie. Il suo aspetto era normalissimo, e ad identificarlo come prelato era solo il colletto bianco. Padre Giuliano, ne aveva fatto il nome Stefano poco prima.

Iniziò a parlare: salutò con un sorriso e si informò su come procedessero le iniziative: raccolte di vestiti usati, volantinaggio; aveva un accento per me simile al laziale, ma con una sfumatura inattesa, sarà stato umbro o qualcosa del genere. Alla fine fece una breve pausa, e disse: “benissimo. Adesso, fratelli, preghiamo insieme.”

Tutti chinarono il capo ed iniziarono a pregare fra sé, a voce bassa. Io così, di punto in bianco, non me l’aspettavo. Chiesi a Stefano “che cosa… che preghiera è?” “Una qualsiasi, non importa quale se ci metti l’intenzione. Puoi inventarla!”.

In quel momento provai un grandissimo desiderio di essere altrove, lo ricordo bene. Ebbi però il contegno di fermarmi, ed impormi di restare; ne andava di Stefano dopotutto, si trattava di capire che cosa lo avesse cambiato in quel modo, o se non altro non era il caso di tranciare questo ponte con lui.

Chiusi gli occhi e incominciai a mormorare il Padre Nostro, che ricordavo a memoria dal Catechismo. Mentre le labbra e la lingua ripercorrevano il consueto itinerario, affidate al pilota automatico, io gironzolavo fra tanti pensieri: era una vita davvero che non andavo in Chiesa, no non mi manca, che palle ma che domande sono certo che non mi manca, devo fare la spesa, la cassiera quella là, forse non ho il contante, con la carta, ce l’ho, sì nella tasca, la cassiera, cucinare ok posso mettere su un film…

Sobbalzai quando sentii una sensazione calda sulle tempie e in cima alla fronte, dove si trova l’attaccatura dei capelli. Una mano, ferma ma gentile, sulla mia testa. Non aprii gli occhi: chissà come seppi subito chi era.

“Tranquillo…” Disse Padre Giuliano “Continua…”

Sulla mia schiena si affaccendarono d’improvviso invisibili agopuntori. Sentii la testa girare dolcemente, e ripresi a dire quelle parole, il Padre Nostro, con una intensità diversa, partecipandovi, scandendole una a una, scolpendole nell’aria con l’impegno ostinato e la fatica di uno scultore dilettante.

Mi sentii avvolto in un nero abbraccio, in un utero, dentro di me ed io dentro di esso. Mi accorsi che le mie ciglia si erano umettate di tiepide lacrime. La mano si spostò dalla mia fronte. Aprii gli occhi, la visione era un poco confusa dalla patina di lacrime, ma vidi distintamente il sorriso sereno e dolce del prete. Egli ritirò la mano, e si allontanò senza dir nulla.

Poi parlò brevemente, del Vangelo credo, io ero troppo in imbarazzo per starlo a sentire. L’incontro finì.

Stefano mi chiese cosa ne pensassi. “Non so, mi sembra troppo… Cioè, sono belle persone non fraintendermi, specie Padre Giuliano, però… Non fa per me. Grazie comunque.” Non sembrò molto sorpreso né deluso.

Feci strada verso casa, promettendomi solennemente che non sarei ci tornato mai, mai più.

Cap3.

“Ste tazzine fanno cagare!!!” Le urla di Bea, la proprietaria, imperversavano per la stanza. Oggi ce l’aveva con gli standard igienici, i miei. Aveva una potenza vocale incredibile, sprecata per il bar; avrebbe potuto fare la soprano, o comandare un battaglione.

“Siete dei porci! Uomini porci, come diceva quello!” Ah, ecco dove voleva arrivare. “Guardate qua che schifo!” Quanto avrei voluto che la finisse. Mica era colpa nostra se eravamo nati dello stesso sesso di suo marito.

Chinai il capo e chiusi gli occhi, sperando che le parole mi sorvolassero e si schiantassero alle mie spalle, sulle pareti color canarino pallido. Fu come attraversare un varco spaziotemporale: tutti sparì e mi trovai improvvisamente nella stessa disposizione di spirito raccolta, meditativa, di quel Mercoledì su quella sedia di plastica.

Desiderai di piangere di nuovo: e per qualche istante mi lasciai cullare da questo pensiero, finché non ne fui brutalmente distolto da un’altra bordata di improperi.

Il ricordo di quella sensazione di riparo e di tana era un piccolo cariòn nel mio cuore, che potevo suonare quando le cose si facevano sgradevoli. Mi trovai a farlo sempre più spesso, e a desiderare di tornare al gruppo prima possibile. La mia promessa solenne a me stesso era sparita nella memoria.

Una sera, tornando dal pub, la mano andò al cellulare e chiamai Stefano, che ormai non veniva neanche più. Di nuovo, lui non fu sorpreso; ci demmo appuntamento al successivo mercoledì.

Cap4.

Da un po’ di tempo frequentavo con cadenza regolare il gruppo; era il mio momento settimanale di raccoglimento, di riparo. Avevo conosciuto i ragazzi, e anche scambiato qualche parola con Padre Giuliano: gli avevo raccontato un po’ chi fossi e che facessi. In un impeto di entusiasmo un giorno gli avevo esternato quanto fossi contento di avere conosciuto quella realtà, al che egli si era inaspettatamente fatto tutto serio, pur annuendo con un abbozzo di sorriso.

Non mi era più capitato di piangere dopo quella prima volta, ma mi lasciavo cullare dal suono delle parole e mi trinceravo in me stesso, lontano dalle cose del mondo.

Nel frattempo, però, aumentava la mia insofferenza alle sfuriate della proprietaria; forse meno frequenti, a dire il vero, ma per me sempre più insopportabili. Forse era il paragone con il dolce oblio dei miei pomeriggi al gruppo, forse invece mi accorgevo finalmente di quanto fosse odioso dover subire le grida di quella donna. Non era vita.

Mi resi conto di provare una costante nostalgia per quella stanza disadorna, il vocio amichevole prima della riunione, e poi quei minuti di preghiera. Pazzesco pensare che fossi così coinvolto. Fino a qualche tempo prima, non avrei saputo neanche dire se fossi religioso, per quanto poco me ne importava.
Questa nostalgia iniziò a preoccuparmi. Decisi di parlare con padre Giuliano, dirgli che mi sarei assentato per un po’. Avevo bisogno di pensare,  e questa volta da solo, non seduto in un circolo mormorante.

Così, alla fine di un incontro, ripiegando la seggiola ed indossando la giacca con studiata lentezza per prendere tempo, rimasi l’ultimo nella stanza, assieme al sacerdote.

Mi recai verso di lui deciso: l’uomo che conoscevo avrebbe sicuramente compreso. Quando mi trovai faccia a faccia con lui, egli fissò i suoi occhi nei miei: rimasi paralizzato nel trovarmi davanti uno sguardo potente, nero, magnetico. Non era la stessa persona. Non riuscii ad aprire bocca.

“Dimmi, figliolo. Ho notato che hai aspettato ad andartene. C’è qualcosa di cui desideri parlarmi?”

“Padre… Non so, in questi giorni io… Non so se questo, se venire… Stare qui sia bene o no per me, per la mia… L’altroieri…”  Non riuscivo a formulare un discorso coerente. Mi accorsi di non essermi preparato niente.

“Ho capito” Disse. Fece una pausa, respirò, e poi, come se nel frattempo sospirasse, esclamò bonariamente “fratello, tu cominci a distinguere le apparenze dal vero, a vedere che cosa è la vita vera, e la desideri. Non c’è niente di strano né di sbagliato in questo; ma il troppo bene all’inizio fa paura, è normale che sia così. La luce del Signore ha iniziato ad entrare nella tua vita, a guidarti e indirizzarti. Non fidarti della paura: devi fidarti invece del tuo cuore. Vieni, lascia che ti mostri qualcosa.”

Senza dire altro si diresse verso una porta che conduceva nei locali retrostanti. Varcata questa, e alla fine di un corridoio illuminato dall’alto da una stretta finestra orizzontale, aprì un’altra porticina che dava accesso ad uno stanzino scuro.

“Vai avanti.” Entrai e mi trovai d’innanzi a un grosso crocifisso di legno, rischiarato solo da una lucetta elettrica. Mi sentii crollare. Non c’era niente di trascendente, di metafisico in quel Cristo: il legno era scuro e pesante, massiccio, fisico: era dolore, era la terrificante tortura e morte di un uomo. La densità della materia scura sembrava assorbire ogni luce e rumore nello stanzino. Le fibre della carne di Gesù si arrampicavano fino al collo crollato ed al viso straziato, coperto dal sangue denso che colava dalla fronte cinta di spine.

“Ti lascio da solo. A dopo.” Chiuse la porta alle sue spalle. Caddi in ginocchio. Piansi, disperatamente. Dissi il Padre nostro, piansi, piansi.

Da quel giorno, per i mesi che seguirono, non persi più un incontro, né mi passò mai per la mente di farlo.

Cap5.

Un giorno mi trovavo al consueto incontro col gruppo, a ripetere il mio Padre Nostro.

L’abitudine si era così consolidata che non ci pensavo neanche più; come nebbia di monte che si espande sulle valli sottostanti, la preghiera aveva pian piano iniziato ad dilatarsi, compenetrando poco a poco le mie giornate. Non mi pesavano neanche più le sfuriate sul lavoro, poiché galleggiavo in sorta di cortina profumante d’incenso; non mi toccavano più, non ero là.

Non uscivo più coi ragazzi, quando avevo tempo frequentavo il gruppo. Andavo a letto prima del mio solito, e prima di dormire avevo preso a sfogliare il Vangelo (l’idea, forse banale ma intanto non ci avevo mai pensato, mi era entrata in testa in qualche modo durante un incontro).

Così, dicevo il mio Pater come ogni volta, quando padre Giuliano venne al mio fianco e mi disse sottovoce “Non credi che sia il momento di fare un passo avanti nel tuo percorso?”

“Cosa vuole dire, Padre?”

“Voglio dire, è tanto ormai che sei qui con noi, che frequenti il nostro gruppo; e continui a recitare sempre lo stesso Padre Nostro…” Aspettò, come a darmi modo di continuare da solo.

“In effetti, Padre… a volte ho la sensazione d’essermi fermato.” Dissi, sorprendendomi del peso, della colpa che provavo nel parlare. “… Non so… Lei cosa dice?”

“Credo, come ti dicevo, che sia il momento di fare un passo avanti. Fai bene a pregare sempre il Signore che è il Padre Onnipotente, ma la mente dell’uomo è debole e presto si perde nell’abitudine, persino nella noia! Per cui bisogna essere previdenti: bisogna essere saggi.”
Chi mi avesse osservato dall’esterno avrebbe visto un bambino che tratteneva il fiato, appeso alle labbra di un maestro.

“Esistono tante altre preghiere, e tanti Santi a cui rivolgersi, il cui Santo nome merita di essere lodato e le cui parole meritano d’essere pronunciate e meditate. Ti farò avere presto il piccolo compendio della nostra comunità, che contiene tutte le preghiere per la beata confraternita dei Santi. Certo, bisognerà che ci dedichi un tempo maggiore, ma è il prezzo per mantenere la concentrazione dell’anima. La salvezza, la conquista del Paradiso, la Vita vera, lo valgono.”

E fu così che finì per sempre l’era dei miei semplici Padre Nostro, delle mie preghiere leggere, e mi iniziò quella delle preghiere per i Santi, o, come diceva Padre Giuliano col particolare suo accento, le preghiere “pe’ Santi”.

Cap6.

Andò avanti così, mano a mano sempre più intensamente. Mi accorsi ad esempio quasi subito che assolutamente nessuno leggeva dal compendio, ripetendo con sicurezza ad occhi chiusi: per cui ogni giorno finii per dover imparare a memoria le preghiere per l’indomani, leggendole, rileggendole, ripetendole fra me e me al lavoro e in ogni situazione. Non uscivo più del tutto, non ne avevo il tempo, ma non ci pensavo. Spesso andavo a letto tardi per finire d’imparare gli ultimi versi. Una volta, stanco al punto da non poter pensare, ho lasciato perdere e sono andato a letto. L’indomani lessi dal compendio. Nessuno mi disse nulla, né mi ammonì, né mi arrivarono occhiate di traverso: ma entro la fine della seduta mi era assolutamente chiaro che la mia mancanza non sarebbe stata tollerata un’altra volta.

L’idea di poter non essere più parte del gruppo non era tollerabile: dovevo stare più attento. Misi nello studio delle preghiere ancora più metodo, finché non ebbi in testa nient’altro: entrai in uno stato di concentrata assenza. Il mondo mi sembrava slavato, opaco, e ovunque, sullo sfondo, mormorava il ritmo delle preghiere del giorno. Gli ingranaggi della mia mente si erano tarati su quella cadenza giornaliera, così di volta in volta imparavo le nuove preghiere senza fatica. Erano passati dieci mesi, dunque le sapevo già quasi tutte. Ma non importava, il meccanismo andava avanti da solo, per inerzia.

Diventando più rapido a memorizzare, mi trovai d’un tratto col problema del tempo libero: alle dieci, poi alle nove, poi alle otto e mezza di sera avevo già finito e non sapevo che fare.

Così mi venne l’idea di stendermi sul letto e ripetermi le preghiere da solo. Potevo andare avanti per ore, supino e immoto, fino ad attraversare il varco fra la veglia e il sonno.

Mano a mano quella soglia l’attraversavo con sempre più grande noncuranza, senza notarlo. La notte si confondeva con il giorno, la veglia col sonno e la realtà aveva perso ogni solidità. Non c’era tempo né dolore né vita né altro che questo stordimento: nient’altro che le mie preghiere.

Unico spigolo in questa mia nuova realtà, in cui anche il tempo a casa e quello al lavoro si erano confusi e scorrevano in serena alternanza, era l’incontro col Gruppo.

Dovevo uscire apposta, una volta a settimana, interrompendo il flusso.

Cominciai così ad accorgermi del peso che aveva acquisito la strada che portava alla parrocchia, l’unica a sembrarmi così grave e stonata e interminabile.
Qualcosa in me prese la decisione al posto mio: smisi di pensarci, e non andai più.

Cap7.

Un giorno stavo peggio del solito. Negli ultimi tempi, capitava che il torpore che mi circondava si dileguasse, rimpiazzato da un pungente mal di testa e una sensazione di fastidio e insofferenza. Quel giorno il mal di testa era più acuto e il fastidio più intenso. E poi ero anche raffreddato.

Era il mio giorno libero; mi alzai dal letto e, per la prima volta da settimane, o mesi? , uscii di casa senza una meta.

Gironzolai fino al “parco” che c’era dietro la mia scuola elementare: due alberi in fila con in mezzo una panchina di ruggine e un pavimento di mattoni sconquassati. Passare da lì mi aveva sempre aiutato a pensare.

Arrivato, vidi che sulla mia panchina stava un ragazzo della mia età, scomposto, le gambe aperte e i gomiti larghi sullo schienale. Portava abiti larghi e colorati, a strisce verdi gialle e rosse, insomma era un normale fricchettone, e m’accorsi che da bravo esponente della sua specie teneva fra le dita un sottile involto bianco, da un’estremità del quale si sprigionava nell’aria una sinuosa scia grigia.

Pareva in pace, beato persino, e completamente per i cazzi suoi.

Poteva essere la prima persona a cui facevo caso in settimane.

Il suo aspetto sereno – appariva semplicemente buttato là come i mattoni che gli sottostavano – non intimidiva, anzi ispirava al dialogo.

Mi avvicinai: – ehi.

– Ehi.

– Posso chiederti una cosa?

– Certo.

– Mi pari molto sereno.

Rise, un sorriso arrogante e simpatico. Si chiedeva che cazzo volevo ma non aveva niente da fare e sarebbe stato al gioco.

– Come mai sei così sereno?

– E perché non dovrei?

Già, perché? Non sapevo che dirgli. Troppo lungo spiegargli tutto, e comunque in quel momento mi sembrava di averlo dimenticato io stesso. Dissi una cosa qualunque.

– Non c’è qualcosa che dovresti fare? Qualcuno o qualcosa che dipende da te?

Fece spallucce mentre tirava, poi riassunse la sua posizione, un tappeto steso al sole, che prendeva la forma della panchina.

Non capivo neanche io che senso avessero le domande che gli facevo, sembravo un attore impreparato che leggeva dal gobbo, mi sentivo un deficiente ma ormai ero nel gioco e continuavo.

Mi venne un’idea, qualcosa che mi pareva più sensato:

– Non pensi mai alla tua anima?

– Alla mia anima?

– Esattamente. Te ne stai lì a non far nulla.

– E come dovrebbe questo far male alla mia anima?

Ancora una volta rimasi zitto. Finalmente trovai qualcosa di ancora più profondo a cui attingere.

– Ma non hai paura della morte?

– Boh. Sto qua, non ci penso. Ma tu perché ci pensi? Che c’hai qualche cosa?

– Tutti dobbiamo morire… – cavolo che cagata. Chissà dove l’ho presa. Guardo il sole che si rifrange sulla panchina, e l’erba che sbuca fra i mattoni e le cicche per terra e tutti insieme mi dicono “ma che cazzo dici”. Ma ormai ci sono dentro. Andiamo avanti.

– Tutti dobbiamo morire… Ed è meglio arrivarci preparati. Preparare la propria anima.

Per la prima volta vidi lui farsi appena un po’ pensieroso:

– Tipo?

– Beh. – non volevo dar via il mio mondo, arrivare al punto, così velocemente, senza sottili e scenografici preamboli, ma non mi veniva in mente niente – Io ad esempio mi raccolgo in preghiera. Molto.

– Ah. E dici che sei più pronto?

– Certo.

– Se lo dici tu fratè! Felice per te!

Non voleva neanche dissentire!

– E tu che fai? – Gli chiedo

– Che, ora? Non lo vedi, sto qua.

Non sapevo che cazzo dirgli, eppure non m’andava di salutarlo. Mi incuriosiva la sua pace, cazzona e maleducata.

Aspetto un altro istante. Respiro a fondo: preparo l’ultimo colpo. Qua o si fa almeno un punto o si passa per coglioni.

– Ma tu, non hai paura dell’Inferno?

Non fece una piega, il che fece venir da ridere anche a me. A un certo punto si raddrizza sulla sedia, si protende alla mia volta e gesticolando con la mano come se stesse ficcando una puntina da disegno nel vuoto mi fa:

– La vita dopo la morte?  L’Inferno? Amico, se c’è un inferno, stai tranquillo che è lì che vanno i pusher. Di sicuro senza non si resta.

Lo guardo, mi guarda, ci mettiamo a ridere.

Oggi ho quattro anni in più. Ho ripreso a frequentare i miei amici e a fare le stesse cose di una volta, vado al bar e guardo film, lavoro come prima, la padrona urla, io segretamente m’incazzo e poi mi passa. E quando sento il bisogno ogni tanto di “qualcosa di più”, quando mi sento in colpa, o nel buio di un vicolo mi sembra di scorgere richiami lontanissimi, faccio un salto da quel tizio del parco, e con quindici euro metto tutto a posto.

L’uomo che non credeva in Dio

Scalfari è ormai un personaggio quasi letterario: l’uomo colto, di radici sinistrorse, ateo, che giunto alla età ultima della vita si ritrova d’un tratto con la prospettiva terribile del nulla, incastrato suo malgrado in un ateismo troppo identitario, troppo ben costruito, troppo sedimentato e consolidato lungo una vita intera per poterne fare a meno.
E allora, cosa fa? Studia i libri dei preti, discorre animosamente di teologia, con la speranza sempre meno segreta di scoprire, in quei libri e in quei discorsi, un padre clemente che possa perdonare anche se non gli è chiesto, che possa indovinare il cristiano mancato ne “l’uomo che non credeva in dio”…

 

http://www.repubblica.it/politica/2014/01/05/news/il_dio_che_affanna_e_che_consola_di_eugenio_scalfari-75144462/?ref=HRER2-1

Una cosa importante

Attraversava la stanza a passi indirizzati e gravi, che contrastavano con i moti lievi di flusso e riflusso dei clienti, gocce colorate che scivolavano nell’acqua, nel grande acquario della sala da tè.
Sapeva il tavolino dove la avrebbe incontrata, lo vide emergere dallo sfondo in una posa tirata: buffa presunzione di un pezzo di plastica bianca che aveva capito e approfittava che fosse il suo giorno, quello, di essere importante.
Sedette ad aspettarla, annodando le dita delle mani l’une alle altre, pensando al tono eccitato e insonne della voce di lei al telefono: “ho qualcosa da dirti. E’ importante”.
Le sue viscere facevano risuonare dentro il sentimento dell’attesa; il battito sordo nelle sue orecchie a tratti sovrastava il chiacchiericcio e lo scalpiccio delle cameriere.
Osservava l’orologio, un prolungato e assorto sguardo, infine distolto verso un dettaglio della carta da parati; quindi realizzava che, nel suo fissare a lungo il percorrere ciclico delle lancette, nel contemplare con quale potente grazia ogni scocco tremasse un istante prima di arrestarsi del tutto, gli era fuggito di mente di leggere l’orario.
Gettava allora un’altra occhiata al polso, quasi furtiva questa, ma più efficace, perché non ricadeva nell’errore di farsi ipnotizzare dalla danza delle lancette; soddisfatta quindi quella sete, distoglieva per un attimo il pensiero, che però subito ricadeva su quel numero, quell’orario che lo inchiodava alla sua sedia, alla sua attesa: lei dovrebbe essere già qui.

E lei entrò, mentre lui vagava con le dita sul bordo di un bicchiere; l’abito bianco che ella aveva addosso portò con sé nella sala il ricordo recente del sole di fuori.
Sorrideva: sorrise per tutto il tragitto al tavolino; poi si sedette anch’ella, attenta come lei lo era, senza distrarsi dal gesto prima di sentire ben solido il proprio peso sulle architetture curve di plastica bianca.
Si protese in avanti, gli avambracci sul bordo del tavolo, estendendo la schiena: piegando a lato il capo, sorrise ancora.
Nessuno nella sala sembrava averle prestato attenzione, se non l’occhio sornione ed addestrato del proprietario. Ora stava di fronte a lui, d’improvviso: un sorridente fantasma.
“Ciao” disse lui; la voce gli si strozzò quando lei gli prese una mano e la strinse fra le proprie: un contatto tiepido e vivo.
Lei sorrideva ancora: e lui scoppiava, tanta la folle gioia, tanta l’incontrollabile ebbrezza.
Ma fu la luce tenue, eppure rapita, lontana, degli occhi di lei, ed ancor più fu quello scoprirsi dei suoi denti, bianchi e soffici e buoni come pasta di mandorle, oggi più luminosi ma più estranei, come rivolti ad altro ed ad altro riservati, a gettargli una nube sul cuore: non sono io. Non io. Non io.
Ella iniziò a parlare: di vacanze al mare, di un incontro casuale, di interessi comuni e di sguardi che si conoscono.
Lui non ascoltava: segretamente ritirando il proprio sangue da quella mano che febbrilmente ella stringeva, affondava invece in una strana melodia di carillon che gli era entrata chissà come in testa, e sentiva le tempie delle vele, che si gonfiavano di vento e nubi bianche.

Sulla strada di casa, costeggiando uno stradone, passò la mano, quella che lei aveva stretto, sulle pareti grinzose di un blocco di cemento, un edificio; con dolcezza ne sentì scorrere la ruvidità sotto i polpastrelli: a riprendersi almeno sé stesso.

La Fiaba di Gustolvo – Capitolo Primo

La fiaba di Gustolvo

Capitolo Primo

C’era una volta molto alta, a crociera, di pietra chiara; sotto di essa, troneggiava il trono di Re Salmastro.

Il sovrano era molto infelice, poiché la sua bellissima figlia, la principessa Brislaga, era molto brutta e, a dirla tutta, anche umanamente sgradevole, al punto da scoraggiare anche i corteggiatori ciechi e financo slovacchi, sloveni o slogati.

Il Re si doleva in cuor suo, poiché egli tanto desiderava avere un nipotino, quale che fosse, per poterlo tediare a morte con storie convenientemente edulcorate sulla propria giovinezza: le ancelle, i nobili e i giullari le avevano ormai sentite fino allo sfinimento e, ad ogni nuovo esordire del Re, cominciavano a manifestare segni di crisi epilettica, dimenandosi per terra e lordando i marmi lucidi della Corte con le loro gentilissime bave.

Il lontano cugino Minosse il Cretino aveva suggerito a Re Salmastro di provare a fare innamorare la figlia dal fido toro Joaquim il mansueto, il quale però, nel vedere le labbra mollicce e il naso bubbonico della giovine principessa, si era rifugiato in un convento ed aveva solennemente preso i voti.

(Come riportato dal grande storico sassone Gvioanni il Dislessico, in seguito Joaquim, sfruttando le sue doti intellettuali ed oratorie parecchio superiori a quelle dei confratelli, scalerà le gerarchie ecclesiastiche fino a fondare il famoso Monastero di San Toro, ricettacolo di catto- e tauro- comunisti.)

Mentre il re sempre più disperava, ed ingannava lo tedio ed i tormenti baloccandosi notte e dì con la sua Statione Giuocatrice, giunse al castello un umile contadino di nome Gustolvo.

A dispetto della sua umiltà, Gustolvo diede subito prova di una rispettabile faccia tosta facendosi annunciare con solenni fanfare dall’araldo, dietro generosa sovvenzione di calci nello stinco, là dove più duole.

Fra gli uomini, egli non era certo il più avvenente. La sua dentatura avrebbe ricordato l’alternanza di tasti bianchi e neri di un pianoforte, se esso all’epoca fosse stato già inventato; le sue sopracciglia ispide avrebbero ricordato il velcro; i suoi capelli radi e aggrovigliati il filo spinato; il suo rurale e vigorosissimo odore i nuvoloni pesti di diossina.

Infatti, Gustolvo puzzava ben più di quanto la sua condizione di umile contadino potesse mai giustificare, facendo sospettare agli increduli annusanti che egli traesse dal proprio tanfo un compiaciuto godimento.

Sbrindellando le parole come se invece che pronunciarle le impastasse con quelle sue manacce, Gustolvo proruppe: “Buon Giorno!”

Al re allibito sbiancò, sussultò; la corona eseguì un volteggio in aria per poi miracolosamente riposizionarsi a sommo della sua boccoluta chioma.

Scuotendosi da quello stato di stupore, esclamò il monarca: “Ma chi siete! Cosa volete!”

“E un attimo!” rispose chiassosamente, con un sorriso sbilenco, lo bifolco “intanto buongiorno sor Maestate, il mio nome è Gustolvo, umile contadino per necessità, avventuriero per passione.”

“Un avventuriero! Molto bene. Ti invierò dal mago Paranco, il quale possiede il siero dell’eterna bellezza. Così potrò finalmente accasare mia figlia e raccontare le mie storie noiosissime al nipotino che ella mi donerà. Accetti, o bifolco?” Chiese il Re, dimentico della collera provata un attimo prima all’irruzione dello sconosciuto.

“Accetto.” disse il nostro umile contadino.

E fu così che Gustolvo fu reclutato dal Re per la più grande delle avventure, sebbene egli si fosse inizialmente presentato solo per chiedere che ore fossero; era noto, infatti, che nel povero Reame di Lenticchia il sovrano fosse l’unico a possedere una meridiana funzionante, e che, per mantenere il proprio privilegio, egli avesse fatto abolire tutti i bastoncini, le stecche e perfino le erezioni, nuocendo gravemente alla natalità del Paese.

A Gustolvo in mattinata fu consegnata una pergamena con le istruzioni da seguire. Nel pomeriggio si tentò poi di istruirlo ai rudimenti del leggere, acciocché potesse in qualche modo interpretare il contenuto della pergamena. Dopo però che ben sei grammatici furono indotti alla follia dal tentativo d’insegnargli, vista la di lui invincibile impermeabilità all’apprendimento, si optò per affiancare a Gustolvo un sapiente che si occupasse della lettura della pergamena.

Quando si trattò di trovare un sapiente, si venne a sapere che, a causa del disinteresse della categoria suddetta verso le faccende della riproduzione, costoro erano ormai per la maggior parte estinti (complice anche il malaugurato bandimento delle erezioni, prima narrato).

La scelta cadde dunque obbligatoriamente sull’unico rimasto, il vecchio Clodoigi, la cui veneranda età veniva rapportata ai boschi, la cui sterminata barba veniva paragonata ai fiumi, la cui manifesta ed avanzatissima demenza veniva derisa dai monelli del paese con scherzi, lancio di oggetti ed appellativi irriverenti.

Convocato d’urgenza dal regal messo, egli si inoltrò nella sala del trono barcollando pericolosamente e precipitando da un lato all’altro della stanza come un vascello sballottato dai flutti, sì che si dice ch’egli abbia calpestato ogni singola mattonella nella grande sala, in un avanguardistico balletto, prima di riuscire finalmente ad arrestarsi di fronte al Re.

“Sì certo!” Esclamò Clodoigi, lo sguardo fisso verso un punto imprecisato del soffitto, prima che nessuno gli dicesse nulla. La cosa non creò scrupoli né al Re né al nostro Gustolvo, e così il saggio Clodoigi si trovò anch’egli a far parte dell’impresa.

Il Re illustrò per grandi linee al vecchio sapiente quello che lui ed il suo compare avrebbero dovuto fare per recuperare il siero dell’eterna bellezza, custodito dal terribile mago Paranco. Nonostante periodici cenni di assenso col capo, qualcuno ebbe a sospettare che Clodoigi non avesse ascoltato una parola di quello che fu detto; i sostenitori di questa tesi citano a prova di ciò il fatto che, per tutta la durata del regal discorso, egli avesse fissato con rapimento un pomello dorato del trono, rivolgendo verso esso un ampio ed affascinato sorriso.

E noi a questa versione ci atterremo, per di più distraendoci anche noi come più preferiamo  durante il discorso illustrativo del Re, per amore dell’incognita e dell’avventura.

Così, dopo che il Re ebbe istruito rapidamente i nostri eroi, si celebrò la nuova speranza del Regno con un lautissimo banchetto, al quale però la principessa non poté partecipare per ordine del medico curante di ciascuno degli altri invitati, stanco di dover gestire dozzine di simultanei attacchi di panico ed emesi incontrollabile. Si mangiò molto, ancor di più si bevve, e ben presto la lunga tavolata si trovò polarizzata fra i racconti noiosissimi di Re Salmastro, che per l’occasione tirò fuori il repertorio speciale delle lungaggini più inconcludenti, e i deliri inverecondi del venerabile Clodoigi, che non disdegnava aneddoti su mondane, ruffiani e cornuti di ogni estrazione, insaporendoli con una quantità di parole poco opportune sbalorditiva, che solo un’esperienza di vita antica e profonda come la sua poteva aver collezionato. Dalla situazione trasse beneficio il semplice Gustolvo, il quale, con molta discrezione e badando bene a non disturbare gli oratori né gli astanti, prese in prestito quanto più poté della regale argenteria presente sulla tavola, riuscendo al tempo stesso a mangiare e bere come un intero reggimento.

E fu così che la notte passò in allegria, e all’alba i nostri eroi, armati solo del proprio coraggio e di un cuore puro (la cui purezza risaltava ancor di più al confronto con le vesti che indossavano), si incamminarono alla volta del Bosco Prolato, impervio e difficoltoso da attraversare da Nord a Sud ma agevolissimo da percorrere in direzione Ovest – Est (va chiarito a questo punto che il Reame dove inizia la nostra storia si trova a Nord-Ovest del Mondo Conosciuto, mentre la fortezza oscura del mago si trova a Sud-Est).

Il sovrano, nella sua magnanimità, aveva concesso ai due paladini il valoroso ciuco Moscardino, anch’esso ben oltre la soglia della terza età.

In un primo momento, Gustolvo, che pure era il più giovane e il più grosso fra i nostri prodi, provò a montare il ciuco, approfittando di una momentanea distrazione del sapiente Clodoigi; quest’ultimo infatti, nel frattempo, cercava ripetutamente di domare con un deciso risucchio diaframmatico un gocciolone di muco che penzolava dal suo venerabile naso.

Così, una gamba dopo l’altra, Gustolvo montò in groppa all’asinello: la bestiuola si lasciò andare al suolo istantaneamente, non opponendo la minima resistenza al peso di Gustolvo ed accasciandosi come una foglia che cade.

Il buon Gustolvo allora, con indiscussa cavalleria, offrì al savio Clodoigi che fosse costui a montare il destriero: il quale destriero però sembrava risoluto a non voler far discriminazioni sulla base della differenza di peso, e si accasciò docilmente al suolo nel medesimo modo.

Si tentò dunque di caricare almeno le bisacce con le provviste sul prode stallone: esso fece un primo passo, ne fece un altro, per poi adagiarsi nuovamente al suolo, con una qualche sua elegante lentezza da ballerina classica.

Gustolvo e Clodoigi avevano ormai rinunciato all’idea che il valido asinello potesse risultare anche solo marginalmente utile: ciononostante, erano determinati a portarlo con sé, visto che ormai a furia di tentativi ci si erano affezionati.

Figuratevi, care lettrici e cari lettori, la loro sorpresa quando si accorsero che, anche privo di fardello, il buon ciuco aveva un’autonomia di una dozzina di passi, al termine dei quali si rannicchiava al suolo ansante e sembrava quasi che si asciugasse il sudore di fronte con gli zoccoli.

Così, alla fine, ecco i nostri tre eroi in marcia verso Bosco Prolato: il saggio Clodoigi in testa alla comitiva, agitando lietamente al vento la regia pergamena come fosse una bandierina, seguito dall’umile Gustolvo, che a sua volta sulle spalle portava il ciuco Moscardino, carico delle bisacce con le vivande e i pochi viatici dei Nostri.

Rette incidenti

In tempi facebookiani, capita sempre più di rado di incrociare una persona con cui si vivrà un bel momento, che sia un minuto o qualche giorno o anche mesi, per poi perdersi di vista per sempre, perdere davvero le tracce. Quando succede è con un sentimento strano, contraddittorio, di sorpresa. Un sentimento complesso, da assaporare, di quelli di cui sempre più facciamo a meno, in favore di esperienze da 140 caratteri.

Non posso essere culato

Nell’inesausto tentativo di contrastare l’impune imbarbarirsi della favella italica, in quest’epoca globalizzata e dominata dal Sassone dal Goto e dall’Unno, propongo a seguire una lista di acronimi alternativi. Secondo l’Accademia della Crusca, la loro praticità ed adolescenziale freschezza, analoghe a quelle dei loro corrispettivi anglici, li condurrà rapidamente a rimpiazzare gli “intrusi”, restituendo alla lingua dei Padri dignità e purezza.

bembo

LOL “Laughing out loud” -> SEF “Sghignazzando esteriormente con fragore ”

comune il rafforzativo LOOOOOL “Laughing ooooout loud” -> SEEEEEF “Sghignazzando eeeeesteriormente con fragore”

ROFL “Rolling on the floor laughing” -> DSPFLR “Dimenandosi sul pavimento fra le risa”

TBH “To be honest” -> ITS “In tutta sincerità”

BRB “(I’ll) Be right back” -> RI “Ritornerò immantinente”

foscolo

YOLO “You only live once” -> QEBGCSFTCVELSDDNCC “Quanto è bella giovinezza, che si fugge tuttavia; chi vuol esser lieto, sia: del diman non c’è certezza”

CYA “See ya” ->  OSQ “Ossequi”

ILU “I love you” -> EDDQCPPTCMSADQIITOAVLPSCIEIMAEICIV “E’ difficile dirti quello che provo per te, cosa mi si accende dentro quando incontro i tuoi occhi. A volte le parole sono così insufficienti, e il mio amore è invece così impossibilmente vasto…”

IMHO “In my humble opinion” -> AMMDCRP “A mio modesto dire, con rispetto parlando”

LMFAO “Laughing my fucking ass off” -> SAPCIUFDSIMMDSDSMCSNSAVDM “Scompisciandomi al punto che, in una fontana di sangue, il mio malnato deretano si distacca dal mio corpo schizzando nello spazio alla volta di Mercurio”

manzoni

OMG “Oh my God” -> SIDDC “Signore Iddio del Cielo!”; PFFB “Poffarbacco!”; DDA “Dardi di Artemide!”; NONN “Numi Onnipotenti!”

WTF “What the fuck” -> CRBZ “Corbezzoli!”; MCD “Ma che diamine…?!”

CBS “Can’t be arsed” -> NPEC “Non posso essere culato”

Gli elettori del PdL

Il grande enigma antropologico che serpeggia ora che questa lunga giornata di scrutini finalmente è giunta al termine è: ma chi è che vota ancora il PdL? Dove sono stati nascosti fin’ora?

Per fortunata coincidenza, tempo fa ho commissionato uno studio in merito al prof. Gherardo Evo Trapezoide, antropologo e sociologo di fama “multimondiale” (cit.), il quale mi ha in seguito consegnato le conclusioni della sua ricerca, pregandomi di mantenere il riserbo fino alla fine delle elezioni.

Adesso, dunque, è il momento giusto per condividere con voi i risultati a cui è pervenuto l’illustre accademico.

TASSONOMIA DELL’ELETTORE DEL PDL

Gli elettori del PdL, senz’altro fra i più interessanti e curiosi esiti dell’evoluzione, sono classificabili esattamente all’interno di quattro phyla, caratterizzati da specificità di grande interesse scientifico.

Phylum “Pecuniata”:
Da ricerche filogenetiche, questo particolare phylum è risultato essere il più antico, nonché il primo ad essersi distaccato dagli antichi phyla degli Scutacruciata e dei Craxia.
Il Pecuniato è il proto-elettore del PdL: estremamente ricco, spesso imprenditore o professionista, ed è l’unico a trarre reale vantaggio dalla linea politica indicata – più con le azioni che con i programmi – dal Lider Maximo di Arcore.
Non vede di buon occhio lo Stato con le relative tasse, imposte, aliquote e gabelle, né in generale l’idea che qualcosa possa rovinare la tanto bella condizione di privilegio in cui si è venuto a trovare. Lo caratterizzano i modi spigliati, l’abbigliamento ostentativo e volgare, l’irresistibile tic di parlare sopra agli altri (sia la voce acuta “a trombetta” che quella cavernosa “a basso-tuba” appartengono alla meravigliosa varietà dei versi del Pecuniato)  e il gusto di sottolineare a ogni occasione quanto la propria persona sia magnifica rispetto al miserrimo interlocutore, che farebbe certo meglio a invidiare in silenzio e impallidire al suo cospetto.

All’interno del phylum sono identificabili le famiglie degli Studiantes degli Ignorantes.
I primi utilizzano normalmente un linguaggio colto, per poi lanciarsi, quando uno meno se lo aspetta, nelle più grottesche volgarità: barzellette di Pierino, insinuazioni sulle madri degli avversari politici, scorregge ascellari, rutti a dinosauro. Fin dai primissimi giorni dopo la nascita, il cucciolo di Pecuniato Studiante viene accuratamente ammaestrato ad alternare con sapienza la finezza stilistica e le scorregge, le digressioni filosofiche e i cori “chi non salta…” allo scopo di intontire e stordire l’avversario e di celare sotto oscuri garriti (mai compresi dagli scienziati) come “rivoluzione liberale”, il semplicissimo fatto che votando PdL difendono la propria posizione sociale di privilegio. Molti degli appartenenti a questa famiglia appartengono alla sottospecie Studiantes Cortigiana e finiscono a dirigere i giornali o le reti TV del Capo.

I secondi, invece, tendono ad  esprimersi in un Italiano poverissimo e menomato, spesso ulteriormente inquinato da anglicismi come “at the top” e “number one” (pur non conoscendo neanche l’Inglese). Tendono a disprezzare chi parli peggio di loro in quanto “ignorante”, e chi parli meglio di loro in quanto “checca” o “figlio di papà”. Mutano opinione su temi come l’energia nucleare, l’aborto, il federalismo ecc. a ogni ciclo lunare, in maniere non ancora comprese dagli studiosi ma, a quanto pare, predette a suo tempo dai Maya.

Phylum “Wanna-be”

Il phylum dei Wanna-be rappresenta un vero enigma per i biologi evoluzionisti, giacché lo studio approfondito di questi esemplari ha riportato in auge teorie ritenute obsolete, come il Lamarckismo. Secondo Lamarck, il collo delle giraffe è lungo a causa degli sforzi compiuti, generazione dopo generazione, per raggiungere le foglie più alte degli alberi: tali sforzi causavano, a dir di Lamarck, microscopici allungamenti del collo che, trasmessi di padre in figlio, avrebbero infine condotto ai colli che possiamo ammirare oggi.

Allo stesso modo, il Wanna-be è convinto che, se imita fedelmente il fulgido esempio del Dio Biscione,  potrà nel corso del tempo mutare la sua condizione ed ascendere al superiore status di Pdl-Pecuniata. In altre parole, costui è effettivamente convinto che i Pdl-Pecuniata abbiano un reale interesse a farlo diventare uno dei loro, e non facciano che tendergli una mano benevolente per aiutarlo a scalare la gradinata sociale (costituita, in genere, dalle teste degli altri). Prigioniero di questa illusione, il PdL-Wanna-be si dedica con diligenza al perseguimento del suo sogno: parcheggia in doppia fila, ruba le merendine ai bambini e i copertoni ai genitori, mente quando gli chiedono indicazioni stradali, bara per vincere a scopone e si fa le boccacce da solo allo specchio. Molti Wanna-be rimango a lungo in questo stadio, compensando lo scarso successo del proprio progetto con l’acquisto (a credito) di automobili costose di seconda mano e indumenti appariscenti; gli studiosi hanno però osservato delle notevoli eccezioni, classificate come “Wanna-be di transizione”.

Questi straordinari e rari esemplari presentano uno spiccato dimorfismo sessuale.
Il maschio tende a coprire il proprio corpo, faticosamente tonificato e modellato in torride palestre, con capi sgargianti o abiti eleganti fatti su misura, in genere – per ipercorrettismo – più volgari di quelli del Pecuniato.
La donna, invece, tende a scoprirlo in grado proporzionale al suo status sociale; inoltre, la donna tende ad introdurre nel suo corpo ingenti quantità di silicati (si ritiene allo scopo di spaventare i nemici).
Il maschio di questa specie, perseguendo carriere come l’animatore di navi da crociera, il DJ o il mafioso, riesce talvolta a trasformarsi davvero nel Pecuniato dei suoi sogni, lasciando il mondo dei biologi nello sgomento.
L’esemplare femminile, invece, culmina il proprio processo evolutivo in una perversa forma di simbiosi mutualistica (che coinvolge un Pecuniato e un numero indefinito di Wanna-be femmine) nella quale scambia degradanti favori sessuali (che non percepisce però come tali) con le briciole che cadono dal tavolo del Pecuniato in questione.

Phylum “Incacchiata”

Gli esemplari appartenenti a questo phylum hanno come loro tipico habitat le operose città del Nord Italia. Riconoscibili dal tipico grugno all’ingiù (o “a u rovesciata”), si esprimono bofonchiando nei loro dialetti vichinghi e maledicendo una volta questo, una volta quello.
Nulla provoca loro maggiore godimento che trovarsi davanti a un’inefficienza (autobus in ritardo, porte scorrevoli bloccate e via dicendo) di cui potersi rumorosamente e indecifrabilmente lagnare.

Covano un astio infinito verso un imprecisato gruppo umano, di volta in volta identificato con le parole “fannulloni, lazzaroni, terroni, negri, comunisti, ladri, nullafacenti, furbetti” ed altre ancora, e nutrono questa loro rabbia divorando assiduamente i giornali del Capo, redatti -come descritto sopra- da Pecuniata Studiantes. Sono strettamente imparentati con gli elettori della Lega Nord, con i quale sono in grado di accoppiarsi fertilmente.
Risulta ad oggi incomprensibile il collegamento fra il fastidio dell’Incacchiatus per ladri e furbetti e la sua scelta elettorale; le più moderne teorie credono di poter trovare una soluzione nel fatto che la disonestà e la furbetteria che costoro disprezzano sono sempre quelle altrui.

-Phylum “Amoeboida”

Il più affascinante ed enigmatico dei phyla che costituiscono il meraviglioso mondo degli elettori del PdL.

Il Pdl-Amoeboidus è un vero mistero. Conduce un’esistenza appartata, acquattato negli angoli più oscuri di bar-salegiochi, stadi, circoli non meglio identificati. Emerge dal suo riservato habitat solo quel giorno ogni biennio – o giù di lì – in cui si reca al seggio elettorale per esprimere una (anzi, La) preferenza.

Non legge (perché non sa e non vuole), non dispone (o non sa che farsene) del collegamento a Internet, e di conseguenza si pasce di lunghe ore di televisione, che costituiscono l’unico tramite fra lui e il mondo esterno all’angusto perimetro casa-bar-lavoro che frequenta (per sua stessa scelta).
E’ innamorato della Guida in modo assoluto. Ne ama il sorriso, la voce, il senso dell’umorismo, la postura, il colore dei capelli, l’assenza dei capelli, il ritorno dei capelli. Parteggia per lui in modo integrale, religioso, mistico.
Orbita intorno alla Guida come un satellite intorno a un Sole, ricevendone la luce: si identifica col suo successo, proietta su di sé i soldi di Lui, ma non cerca in alcun modo di ottenerli, e se li avesse sul serio e Lui venisse e glieli chiedesse glieli renderebbe, perché Lo ama davvero.
Tifa follemente la sua squadra, ha un piccolo conto alla sua banca, guarda le sue televisioni che lo circondano di affettuoso tepore e della sensazione di avere ragione in un mondo tutto bianco, e non capisce perché ci sia tanto chiasso fuori e questa gente che dice che tutto va male… Quel che sa è che finché Lui ci sarà, e gli sorriderà come solo Lui sa sorridere, il mondo gli sorriderà e niente cambierà. Il tempo si può fermare, perché per Lui si è fermato, perché Lui può farlo e Lui solo.

E così, Berlusconi tornerà e tornerà, e tornerà ancora se necessario, e l’Amoeboidus non gli farà mai mancare il suo voto.

Il microtempo che evapora

Lasciando qui perdere le considerazioni etico-socio-politico-psicologico-tantriche che si potrebbero (a volerlo) fare su come passiamo il nostro tempo su Facebook, oggi mi sono accorto di una cosa, banalissima ma a suo modo rivelatoria.
Si tratta della constatazione che una frazione molto grande del tempo che si trascorre su fb (almeno dal mio punto di vista, quello di un utente che lo utilizza più per chattare e tenersi in contatto con gli amici che per esplorare i profili altrui e le pagine) è trascorso in realtà in attesa: l’attesa che un altro risponda in chat, o ad un commento.
Per sua natura, fb è dispersivo: non è pensato per stare concentrati su una chat (né su nient’altro) ma per lasciar vagare e spaziare, per essere una scheda aperta fra mille altre mentre si fanno un mare di altre cose, una distrazione breve e continua: così i tempi dei conversanti non coincidono e una comunicazione dal breve contenuto si può protrarre per minuti e minuti, piena di bolle di attesa, piccole “code alle poste” virtuali che fanno evaporare via il nostro tempo secondo per secondo senza darci nulla di nulla in cambio.

Un po’ un plus-tempo digitale.

For a Living

– “E tu, cosa fai nella vita?”

– “Cammino su una fune sospesa, e suono il violino.”

Oggi mi sono imbattuto in questa persona:Image

Piazzato nel bel mezzo di Cambridge, in un affollato Sabato pomeriggio.

Trovo queste persone piene di poesia. Al vederle mi riempio di domande, mi partono mille fantasticazioni.
Chi è? Come ha cominciato, come gli è venuta l’idea? Gli piace quel che fa? Cosa pensa di sé, come si vede? Fa un altro lavoro o vive della sua particolarissima arte? E’ la necessità o il piacere a spingerlo sulle piazze, sulla fune?

Immaginiamo, visto che nulla ce lo vieta ed è più bello così, che sia proprio il suo mestiere: è un artista di strada, un professionista di corde (musicali) e funi (da passeggio).

E allora altre domande: cosa sogna quando è solo, cosa immagina? Come trascorre le sue ore? Dove si esercita? Viaggia di città in città? E’ geloso e fiero di una libertà conquistata ad ogni prezzo, o rimpiange le certezze della routine, il tepore e la sedia imbottita di un ufficio impersonale? Cosa pensa del pubblico itinerante che lo fissa, preoccupato, interessato, avvinto, annoiato, indifferente, divertito, distratto? Cosa pensa mentre ripete quei movimenti così familiari, mentre suona note ben note, sospeso lì, al suo posto nell’aria, il suo ecosistema portatile, il suo palcoscenico sospeso? Quando e dove si esercita, se lo fa? Cosa chiede alle sue giornate?

Non riesco a non essere affascinato da queste persone, da questi specialisti di arti strane, tanto più insoliti e fuori di chiave in un mondo di corse a ostacoli, dal reparto ostetricia fino alla bara: curriculum, domande, colloqui, promozioni, carriere, e via via, fino ad arrivare all’Empireo di spread, fiscal compact e svariati analoghi anglicismi.
La loro alterità rispetto ad una società di ruoli e funzioni, il loro (r?)esistere nelle nicchie del tempo non impegnato (sia riguardo alla natura dell’attività che svolgono, sia con riferimento ai loro gironzolanti e spensierati fornitori di stipendio) sono come piccoli richiami dialettici, puntolini di dubbio che richiamano a fermarsi e cercare di capire quanto possa essere diversa una vita dall’altra (e su questo spero prima o poi di scrivere l’articolo su Hans Cassonetto che rimando da… anni?).

Quello di oggi non era il numero più difficile né più pericoloso che avessi visto; ma, prendendomi di sorpresa, mi ha colpito lo stesso. Credo che ci siamo desensibilizzati a riguardo. Abbiamo tutti visto troppe cose, siamo così abituati alla perfezione del televisivo, dell’artificiale, che non ci emozioniamo per le cose belle, imperfette e vere che abbiamo dietro l’angolo: per dire, Belen tolto l’intonaco non ha in verità nulla di più della tizia in fila al supermercato o della vicina di casa. Solo in questa prospettiva si possono spiegare Justin Bieber e conseguenti epigoni.
Io, comunque, non ci riesco a suonare il violino stando su una fune (e neanche a terra, a dire il vero), per cui questo spettacolo mi è piaciuto.

Gli ho fatto una foto col mio nuovo cellulare del PdL, a perpetua memoria.
Però gliel’ho fatta di spalle.

Perché il suo lato frontale è la sua maschera pubblica, è il personaggio, l’intrattenitore. Cambiare inquadratura invece restituisce realtà e umanità alle cose, le rimette in prospettiva (provi il leggente a immaginarlo con un film di suo gusto), chiarisce il confine fra l’epico e il ridicolo, fra il tragico e il buffo, fra il ragionevole e l’assurdo; un po’ come per quelle sculture greche progettate per la sola visione frontale, che viste di lato perdono l’incanto e rivelano l’artificio. E poi è più poetico vedere solo quel buffo cappello, che in qualche senso lo definisce più della sua faccia, perché la faccia ce l’hanno tutti…

Dunque, una foto di spalle come ricordo, visto che a me interessa ricordarmi dell’uomo – come l’ho immaginato, perché naturalmente non lo conosco. E in questa foto, a rivederla, ci scorgo o ci voglio scorgere un che di dolce e familiare nella curva dorsale e nelle spalle, un che di umano nella largaggine dei pantaloni. E mi sta benissimo così.

Suggerimenti di Amazon

Amazon oggi mi invia suggerimenti per i regali di San Valentino: così finalmente al regalare non è rimasto più nulla.
Il mercato decide già da tempo se e quando si debbano fare regali: ovvero sempre più spesso, perché bisogna pungolare i sempre restii consumatori ad incentivare i sempre insufficienti consumi per dare una boccata d’ossigeno al sempre bisognoso mercato; un clic evita la tediosa perdita di tempo di recarsi fisicamente per negozi, che poi fuori c’è freddo, o c’è caldo.
A redimere regali doppioni, o altrimenti poco graditi, e la poca poesia di regali ordinati a domicilio come pizze, standosene placidamente di fronte allo schermo, c’è però sempre l’antica saggezza dello stereotipo: quel che conta è il pensiero.
Grazie ai suggerimenti di Amazon, non è rimasto neppure quello.

L’auspicabile passo successivo è automatizzare la scelta e l’acquisto del regalo, incrociando i dati di Facebook e Google con le disponibilità di magazzino di Amazon.

Papà, compleanno: orologio, range prezzo impostato a 300-500 €, preferenza “modello sportivo” ottenuta tramite analisi bayesiana multivariata tenente conto di età, professione e attività online (utilizzate per l’assegnazione di un target-type tramite profiling psicologico automatico) e statistiche di vendita; mamma, Natale: cd di Frank Sinatra (piaciuto su Facebook, postato di frequente) scelto con algoritmo di valutazione rating/prezzo (escluso Trilogy, già acquistato in data 15/04/2011); fratello, onomastico: maglione, taglia (ottenuta da foto recenti su profilo Facebook con apposito software), preferenza colori caldi (idem); fidanzata-compagna, San Valentino: rose rosse, # dispari, biglietto frase romantica adeguato per la fascia di età.
All’invio dei doni, già impacchettati, un’email autogenerata informerebbe il cliente di cosa abbia regalato, scongiurando potenziali situazioni spiacevoli.
Regali graditi e mirati per tutti – e per di più cambiabili fino a 10 giorni, contattare il Servizio Clienti -, scelti minimizzando la spesa e massimizzando la qualità, e senza fatica: addio doppioni, addio libri “sbagliati”!

L’introduzione di questo sistema, che già oggi peraltro non pone certo grandi difficoltà tecniche, consentirebbe – secondo studi preliminari – un aumento del 60% nel coefficiente di beneficio dei recipients (calcolato come soddisfazione/spesa) e un risparmio finanziario fino al 15% per i customers, con un risparmio di tempo di 400 minuti per customer in media: minuti di vita restituiti, regalati, ai previdenti che si affideranno ai prodigi dell’era della connessione, e che potranno essere spesi, ad esempio, lavorando, o guardando la televisione.