Cap1.
Quella che state leggendo è una storia vera. Una storia che ho vissuto in prima persona.
Parlarne, per me, è difficile. Cercare di richiamare un ricordo finisce per evocarne troppi, che si tirano l’un l’altro, vividissimi… Ma mi sono fatto forza, e ho impugnato la penna per raccontarvi la mia storia, così che sappiate i rischi, così da poter evitare di doverla vivere a vostra volta: per scongiurare la possibilità che altri debbano passare quello che, quasi senza accorgermene, mi sono trovato a passare io.
La mia storia è quella di un percorso, tortuoso ma inesorabile, verso la luce… una luce accecante, invadente, insopportabile. Una luce che alla fine aveva occupato ogni mio spazio, ogni istante del mio tempo, ogni riposto incavo della mia anima.
Iniziò quattro anni fa; facevo una vita di quelle che chiamano normali… anche se, visti i tempi, sarei più sincero a definirla fortunata: avevo un lavoro fisso, in un bar carino al limitare del centro storico, abbastanza centrale da partecipare della vita cittadina, abbastanza defilato da non essere troppo affollato o troppo caro.
Pagato non malaccio e, per il resto, non m’importava troppo di essere lì piuttosto che altrove. A volte la proprietaria alzava la voce: il marito la tradiva, pare, e lei di tanto in tanto scoppiava e la buttava tutta su di noi, a me dava fastidio perché non sopporto quelli che gridano, ma bastava aspettare qualche minuto e la sfuriata si esauriva. Niente di drammatico insomma.
Passavo le giornate, mi guadagnavo la pagnotta, ogni tanto capitava qualche cosa di interessante, ma in genere le giornate si susseguivano identiche e rapide, volavano via come i fogli del calendario.
Quando avevo tempo, se gli amici erano al lavoro e non ci si poteva vedere, mi ingozzavo di vecchi film pagati niente, affondato in un divano vecchio, del quale, mi si lamentava, si poteva sentire ogni molla – certo, forse a sedervisi come capita: ma siccome io ero un abitudinario, esisteva in realtà una angolazione privilegiata, plasmatasi sulla mia sagoma, di una comodità squisita: da far invidia agli ultimi ritrovati dell’ingegneria ortopedica.
Non mi dispiaceva la mia vita, anche se in realtà non succedeva molto. Vedevo spesso i ragazzi, che poi erano gli stessi dai tempi di scuola, la sera; sembrava che non succedesse molto neanche a loro, si parlava di film o di sport o di ragazze, che di tanto in tanto entravano e uscivano dalle nostre vite, come i personaggi dei film o dello sport.
Però, senza che da principio nessuno se ne accorgesse, cominciò ad esserci qualcosa di nuovo nelle nostre serate.
Ci fu che Stefano iniziò a rabbuiarsi sempre di più. In un primo momento, come ho detto, fummo forse un poco disattenti: non ci accorgemmo che non partecipava alla solita discussione miscellanea, allegra e scanzonata; sembrava si annoiasse.
Divenne più evidente quando incominciò a gettare assiduamente lo sguardo verso gli angolini vuoti della stanza; poi persino a sbuffare alle battute più sceme, che fino al passato recente non aveva mai sprezzato. Di tanto in tanto addirittura disertava, fornendo scuse malassemblate.
Una sera Stefano ed io camminavamo insieme verso casa, non si abitava lontano era capitato il caso raro che la bellezza della serata vincesse la nostra pigrizia e ci inducesse a lasciare le auto nei garage.
Camminando, non dicevo niente, e continuavo a ispezionare con la coda dell’occhio in direzione di lui, che trascinava il passo a capo chino, come avvolto in un nuvolone di pensieri.
Mentre scendevamo per un viale, il calderone, il chissà cosa che borbottava dentro di lui traboccò improvvisamente: rallentando nel camminare e rivolgendomi uno sguardo fisso ma un poco obliquo mi domandò: “allora, che ne pensi?”
Nonostante il suo tono un po’ spocchioso e il precedente, sgradevole silenzio non invitassero ad essere cortesi, capii all’istante che quella era l’occasione che un po’ tutti attendevamo per capire cosa gli frullava in quella zucca vuota. Gli risposi dunque con garbo: “…di cosa?”
“Di questo, di queste serate…” Accompagnava le parole, cariche di convinzione ma calme, con una smorfia di stizza e barocchi gesti rotanti della mano: “…di questo chiacchierare sempre uguale, sempre uguale a sé stesso, di questi continui discorsi inutili…”
Mi aveva preso un po’ in contropiede “Ma non… E’ sempre stato così, no?” Mi accorsi di essere inciampato, e avergli dato in parte ragione. Vabbè. “Non mi sembrava che ti desse così fastidio la nostra compagnia.”
“Non siete voi, voi siete i miei amici, voglio dire… Ma a volte mi sembra che non ci siate, che siate addormentati.”
“Che vuoi dire?”
“Mi sembra che siate addormentati… Che viviate nell’aria. State lì a bere una birra e a scherzare, uscite con ragazze di cui in fondo non mi pare che ve ne importa molto, a parte Umberto con Marta che vabbè, e insomma, siete lì che vivete nella superficie delle cose. Vivete una vita di superficie.”
L’espressione mi colpì: era interessante, quasi elegante, quasi letteraria sulla bocca del buon Stefano, personaggio che all’eredità gloriosa della nostra cultura umanistica preferiva quella di Carlo Conti. Quasi elegante, quasi letteraria. Quasi straniera.
L’istinto mi suggerì di aguzzare le orecchie.
“Ah.” Dissi semplicemente. Lanciato com’era, la mia risposta vaga lo spiazzò. Tacque per qualche istante.
“…Allora, che ne pensi?” Disse, a riattizzare una conversazione che evidentemente aveva a cuore.
“Non saprei…” Ed, effettivamente, non sapevo. Non capivo proprio che cosa volesse dire con quelle parole, e forse manco m’importava; ma mi rendevo conto che arrivato a questo punto dovevo arrivare in fondo, farlo parlare, cercare di fargli sputar fuori il rospo. “A me sembra ok. Cioè, cosa vorresti dire “di superficie”?”
“Voglio dire” rispose senza esitazioni: evidentemente la domanda era quella giusta! “che sembra che vivete e non sapete che vivete a fare. State lì ogni giorno . E’ vita, forse, ma non è certo la Vita vera” – sì, con la V maiuscola, resa visibile e quasi palpabile dalla solenne veemenza dello scandimento.
“E allora scusa questa vita vera che sarebbe?” Dissi con impazienza simulata, per rendere la cosa più credibile ed assicurarmi che svuotasse il sacco fino in fondo.
Al sentire questa domanda, il suo viso cambiò in un istante, passando dalla durezza ad una sorta di paternale comprensione, che sembrava preparata, come se avesse fatto pratica.
“Anche io ho vissuto questa vostra vita di superfice” disse, senza rendersi conto di quanto paresse ridicolo con quel rimembrare un passato remoto che in realtà era quasi il presente, “ma grazie al Cielo… sono rinato, sono rinato ad una nuova vita, una vita seria e piena di significato. Ricordi Palmira?”
“Ma chi, Palmira-gambe-storte?”
“Sì-cioè-no, cioè quella là, a parte che comunque non è vero che ha le gambe storte ma comunque” “Ma non avevi detto che volevi mollarla, tipo… mesi fa?” “…Forse ho detto così, ma non volevo… E anche se avessi voluto… Lei mi ha fatto capire, mi ha cambiato. Mi ha mostrato che non vivevo, e mi ha mostrato la vera vita. Vera.”
Finalmente credetti di aver capito.
“Ma che sei stato…?”
“Ho ascoltato la Parola, e Lei mi ha ridato la vita! La vita vera!” esclamò infine, imbarazzato e commosso.
Non avevo niente da dire. Era un momento strano e sorprendente: non m’aspettavo che un ragazzo tranquillo e leggero come egli era sempre stato potesse essere improvvisamente posseduto da un simile fervore. Guardavo a terra, vicino ai suoi piedi. Pure il marciapiede sembrava in imbarazzo.
“Vieni anche tu!”
“…Cosa?”
“Vieni a vedere!”
“Ma vieni dove?”
“Al gruppo, dove vado io! Dài, vieni, una volta sola, tanto per vedere com’è! Ti piacerà. Ne ho parlato con te per primo, dei ragazzi, perché sapevo che tu avresti capito.”
“…”
“Allora?”
“ ’Bene…”
“Grande! Ero sicuro che tel’accollavi! Allora dai, ti dò un colpo di telefono mercole e ci organizziamo.”
“Mercoledì, vabé. Ok allora, io devo girare di là adesso…”
“Ok. Allora mercoledì: ci conto!”
“Va bene! Mercoledì. Ciao!”
“Ciao!”
Cap2.
Il mercoledì mi recai alla sede del “gruppo”, al pianterreno di una palazzina bassa dall’aspetto qualunque, ospitante per il resto un paio di appartamenti.
Entrando dalla porta semiaperta, ero in grande imbarazzo. Stefano non mi aveva informato praticamente di nulla men che la data e il luogo, insistendo solo sul carattere rilassato (“siamo una famiglia!”) della faccenda, per cui nel dubbio avevo optato per un maglione verde scuro, forse confidando in qualche sua proprietà mimetica.
C’erano tante persone, vestite in modo vario e piuttosto colorato, che chiacchieravano a gruppetti intorno a delle sedie disposte in cerchio, dove alcuni già sedevano. Tutti erano molto vivaci, sorridenti; per la maggior parte erano giovani.
Stefano mi venne incontro, invitandomi ad accomodarmi e posare le mie cose su una sedia pieghevole, alla sua destra. Immaginavo di venire subito notato ed additato come “estraneo”, illuminato dal feroce riflettore dell’attenzione generale e sottoposto ad un sorridente e terrificante quarto grado su chi fossi e cosa facessi; infine, mi immaginavo subissato da una cascata di zuccherosi “benvenuto!”.
Fui sorpreso dallo svolgersi sereno della cosa. Non ero trattato con freddezza, ma neanche oggetto di particolare attenzione. Ogni tanto qualcuno, avvicinatosi a Stefano, mi si presentava, e continuava poi a parlare con lui e con me come se ci si conoscesse da sempre, senza farmi domande.
Tutti si sedettero quando fece il suo ingresso nella stanza un uomo sui sessanta, di statura non alta, i capelli bianchi lanciati da lato a lato del cranio tipo ponte di Brooklyn a celare la di lui calvizie. Il suo aspetto era normalissimo, e ad identificarlo come prelato era solo il colletto bianco. Padre Giuliano, ne aveva fatto il nome Stefano poco prima.
Iniziò a parlare: salutò con un sorriso e si informò su come procedessero le iniziative: raccolte di vestiti usati, volantinaggio; aveva un accento per me simile al laziale, ma con una sfumatura inattesa, sarà stato umbro o qualcosa del genere. Alla fine fece una breve pausa, e disse: “benissimo. Adesso, fratelli, preghiamo insieme.”
Tutti chinarono il capo ed iniziarono a pregare fra sé, a voce bassa. Io così, di punto in bianco, non me l’aspettavo. Chiesi a Stefano “che cosa… che preghiera è?” “Una qualsiasi, non importa quale se ci metti l’intenzione. Puoi inventarla!”.
In quel momento provai un grandissimo desiderio di essere altrove, lo ricordo bene. Ebbi però il contegno di fermarmi, ed impormi di restare; ne andava di Stefano dopotutto, si trattava di capire che cosa lo avesse cambiato in quel modo, o se non altro non era il caso di tranciare questo ponte con lui.
Chiusi gli occhi e incominciai a mormorare il Padre Nostro, che ricordavo a memoria dal Catechismo. Mentre le labbra e la lingua ripercorrevano il consueto itinerario, affidate al pilota automatico, io gironzolavo fra tanti pensieri: era una vita davvero che non andavo in Chiesa, no non mi manca, che palle ma che domande sono certo che non mi manca, devo fare la spesa, la cassiera quella là, forse non ho il contante, con la carta, ce l’ho, sì nella tasca, la cassiera, cucinare ok posso mettere su un film…
Sobbalzai quando sentii una sensazione calda sulle tempie e in cima alla fronte, dove si trova l’attaccatura dei capelli. Una mano, ferma ma gentile, sulla mia testa. Non aprii gli occhi: chissà come seppi subito chi era.
“Tranquillo…” Disse Padre Giuliano “Continua…”
Sulla mia schiena si affaccendarono d’improvviso invisibili agopuntori. Sentii la testa girare dolcemente, e ripresi a dire quelle parole, il Padre Nostro, con una intensità diversa, partecipandovi, scandendole una a una, scolpendole nell’aria con l’impegno ostinato e la fatica di uno scultore dilettante.
Mi sentii avvolto in un nero abbraccio, in un utero, dentro di me ed io dentro di esso. Mi accorsi che le mie ciglia si erano umettate di tiepide lacrime. La mano si spostò dalla mia fronte. Aprii gli occhi, la visione era un poco confusa dalla patina di lacrime, ma vidi distintamente il sorriso sereno e dolce del prete. Egli ritirò la mano, e si allontanò senza dir nulla.
Poi parlò brevemente, del Vangelo credo, io ero troppo in imbarazzo per starlo a sentire. L’incontro finì.
Stefano mi chiese cosa ne pensassi. “Non so, mi sembra troppo… Cioè, sono belle persone non fraintendermi, specie Padre Giuliano, però… Non fa per me. Grazie comunque.” Non sembrò molto sorpreso né deluso.
Feci strada verso casa, promettendomi solennemente che non sarei ci tornato mai, mai più.
Cap3.
“Ste tazzine fanno cagare!!!” Le urla di Bea, la proprietaria, imperversavano per la stanza. Oggi ce l’aveva con gli standard igienici, i miei. Aveva una potenza vocale incredibile, sprecata per il bar; avrebbe potuto fare la soprano, o comandare un battaglione.
“Siete dei porci! Uomini porci, come diceva quello!” Ah, ecco dove voleva arrivare. “Guardate qua che schifo!” Quanto avrei voluto che la finisse. Mica era colpa nostra se eravamo nati dello stesso sesso di suo marito.
Chinai il capo e chiusi gli occhi, sperando che le parole mi sorvolassero e si schiantassero alle mie spalle, sulle pareti color canarino pallido. Fu come attraversare un varco spaziotemporale: tutti sparì e mi trovai improvvisamente nella stessa disposizione di spirito raccolta, meditativa, di quel Mercoledì su quella sedia di plastica.
Desiderai di piangere di nuovo: e per qualche istante mi lasciai cullare da questo pensiero, finché non ne fui brutalmente distolto da un’altra bordata di improperi.
Il ricordo di quella sensazione di riparo e di tana era un piccolo cariòn nel mio cuore, che potevo suonare quando le cose si facevano sgradevoli. Mi trovai a farlo sempre più spesso, e a desiderare di tornare al gruppo prima possibile. La mia promessa solenne a me stesso era sparita nella memoria.
Una sera, tornando dal pub, la mano andò al cellulare e chiamai Stefano, che ormai non veniva neanche più. Di nuovo, lui non fu sorpreso; ci demmo appuntamento al successivo mercoledì.
Cap4.
Da un po’ di tempo frequentavo con cadenza regolare il gruppo; era il mio momento settimanale di raccoglimento, di riparo. Avevo conosciuto i ragazzi, e anche scambiato qualche parola con Padre Giuliano: gli avevo raccontato un po’ chi fossi e che facessi. In un impeto di entusiasmo un giorno gli avevo esternato quanto fossi contento di avere conosciuto quella realtà, al che egli si era inaspettatamente fatto tutto serio, pur annuendo con un abbozzo di sorriso.
Non mi era più capitato di piangere dopo quella prima volta, ma mi lasciavo cullare dal suono delle parole e mi trinceravo in me stesso, lontano dalle cose del mondo.
Nel frattempo, però, aumentava la mia insofferenza alle sfuriate della proprietaria; forse meno frequenti, a dire il vero, ma per me sempre più insopportabili. Forse era il paragone con il dolce oblio dei miei pomeriggi al gruppo, forse invece mi accorgevo finalmente di quanto fosse odioso dover subire le grida di quella donna. Non era vita.
Mi resi conto di provare una costante nostalgia per quella stanza disadorna, il vocio amichevole prima della riunione, e poi quei minuti di preghiera. Pazzesco pensare che fossi così coinvolto. Fino a qualche tempo prima, non avrei saputo neanche dire se fossi religioso, per quanto poco me ne importava.
Questa nostalgia iniziò a preoccuparmi. Decisi di parlare con padre Giuliano, dirgli che mi sarei assentato per un po’. Avevo bisogno di pensare, e questa volta da solo, non seduto in un circolo mormorante.
Così, alla fine di un incontro, ripiegando la seggiola ed indossando la giacca con studiata lentezza per prendere tempo, rimasi l’ultimo nella stanza, assieme al sacerdote.
Mi recai verso di lui deciso: l’uomo che conoscevo avrebbe sicuramente compreso. Quando mi trovai faccia a faccia con lui, egli fissò i suoi occhi nei miei: rimasi paralizzato nel trovarmi davanti uno sguardo potente, nero, magnetico. Non era la stessa persona. Non riuscii ad aprire bocca.
“Dimmi, figliolo. Ho notato che hai aspettato ad andartene. C’è qualcosa di cui desideri parlarmi?”
“Padre… Non so, in questi giorni io… Non so se questo, se venire… Stare qui sia bene o no per me, per la mia… L’altroieri…” Non riuscivo a formulare un discorso coerente. Mi accorsi di non essermi preparato niente.
“Ho capito” Disse. Fece una pausa, respirò, e poi, come se nel frattempo sospirasse, esclamò bonariamente “fratello, tu cominci a distinguere le apparenze dal vero, a vedere che cosa è la vita vera, e la desideri. Non c’è niente di strano né di sbagliato in questo; ma il troppo bene all’inizio fa paura, è normale che sia così. La luce del Signore ha iniziato ad entrare nella tua vita, a guidarti e indirizzarti. Non fidarti della paura: devi fidarti invece del tuo cuore. Vieni, lascia che ti mostri qualcosa.”
Senza dire altro si diresse verso una porta che conduceva nei locali retrostanti. Varcata questa, e alla fine di un corridoio illuminato dall’alto da una stretta finestra orizzontale, aprì un’altra porticina che dava accesso ad uno stanzino scuro.
“Vai avanti.” Entrai e mi trovai d’innanzi a un grosso crocifisso di legno, rischiarato solo da una lucetta elettrica. Mi sentii crollare. Non c’era niente di trascendente, di metafisico in quel Cristo: il legno era scuro e pesante, massiccio, fisico: era dolore, era la terrificante tortura e morte di un uomo. La densità della materia scura sembrava assorbire ogni luce e rumore nello stanzino. Le fibre della carne di Gesù si arrampicavano fino al collo crollato ed al viso straziato, coperto dal sangue denso che colava dalla fronte cinta di spine.
“Ti lascio da solo. A dopo.” Chiuse la porta alle sue spalle. Caddi in ginocchio. Piansi, disperatamente. Dissi il Padre nostro, piansi, piansi.
Da quel giorno, per i mesi che seguirono, non persi più un incontro, né mi passò mai per la mente di farlo.
Cap5.
Un giorno mi trovavo al consueto incontro col gruppo, a ripetere il mio Padre Nostro.
L’abitudine si era così consolidata che non ci pensavo neanche più; come nebbia di monte che si espande sulle valli sottostanti, la preghiera aveva pian piano iniziato ad dilatarsi, compenetrando poco a poco le mie giornate. Non mi pesavano neanche più le sfuriate sul lavoro, poiché galleggiavo in sorta di cortina profumante d’incenso; non mi toccavano più, non ero là.
Non uscivo più coi ragazzi, quando avevo tempo frequentavo il gruppo. Andavo a letto prima del mio solito, e prima di dormire avevo preso a sfogliare il Vangelo (l’idea, forse banale ma intanto non ci avevo mai pensato, mi era entrata in testa in qualche modo durante un incontro).
Così, dicevo il mio Pater come ogni volta, quando padre Giuliano venne al mio fianco e mi disse sottovoce “Non credi che sia il momento di fare un passo avanti nel tuo percorso?”
“Cosa vuole dire, Padre?”
“Voglio dire, è tanto ormai che sei qui con noi, che frequenti il nostro gruppo; e continui a recitare sempre lo stesso Padre Nostro…” Aspettò, come a darmi modo di continuare da solo.
“In effetti, Padre… a volte ho la sensazione d’essermi fermato.” Dissi, sorprendendomi del peso, della colpa che provavo nel parlare. “… Non so… Lei cosa dice?”
“Credo, come ti dicevo, che sia il momento di fare un passo avanti. Fai bene a pregare sempre il Signore che è il Padre Onnipotente, ma la mente dell’uomo è debole e presto si perde nell’abitudine, persino nella noia! Per cui bisogna essere previdenti: bisogna essere saggi.”
Chi mi avesse osservato dall’esterno avrebbe visto un bambino che tratteneva il fiato, appeso alle labbra di un maestro.
“Esistono tante altre preghiere, e tanti Santi a cui rivolgersi, il cui Santo nome merita di essere lodato e le cui parole meritano d’essere pronunciate e meditate. Ti farò avere presto il piccolo compendio della nostra comunità, che contiene tutte le preghiere per la beata confraternita dei Santi. Certo, bisognerà che ci dedichi un tempo maggiore, ma è il prezzo per mantenere la concentrazione dell’anima. La salvezza, la conquista del Paradiso, la Vita vera, lo valgono.”
E fu così che finì per sempre l’era dei miei semplici Padre Nostro, delle mie preghiere leggere, e mi iniziò quella delle preghiere per i Santi, o, come diceva Padre Giuliano col particolare suo accento, le preghiere “pe’ Santi”.
Cap6.
Andò avanti così, mano a mano sempre più intensamente. Mi accorsi ad esempio quasi subito che assolutamente nessuno leggeva dal compendio, ripetendo con sicurezza ad occhi chiusi: per cui ogni giorno finii per dover imparare a memoria le preghiere per l’indomani, leggendole, rileggendole, ripetendole fra me e me al lavoro e in ogni situazione. Non uscivo più del tutto, non ne avevo il tempo, ma non ci pensavo. Spesso andavo a letto tardi per finire d’imparare gli ultimi versi. Una volta, stanco al punto da non poter pensare, ho lasciato perdere e sono andato a letto. L’indomani lessi dal compendio. Nessuno mi disse nulla, né mi ammonì, né mi arrivarono occhiate di traverso: ma entro la fine della seduta mi era assolutamente chiaro che la mia mancanza non sarebbe stata tollerata un’altra volta.
L’idea di poter non essere più parte del gruppo non era tollerabile: dovevo stare più attento. Misi nello studio delle preghiere ancora più metodo, finché non ebbi in testa nient’altro: entrai in uno stato di concentrata assenza. Il mondo mi sembrava slavato, opaco, e ovunque, sullo sfondo, mormorava il ritmo delle preghiere del giorno. Gli ingranaggi della mia mente si erano tarati su quella cadenza giornaliera, così di volta in volta imparavo le nuove preghiere senza fatica. Erano passati dieci mesi, dunque le sapevo già quasi tutte. Ma non importava, il meccanismo andava avanti da solo, per inerzia.
Diventando più rapido a memorizzare, mi trovai d’un tratto col problema del tempo libero: alle dieci, poi alle nove, poi alle otto e mezza di sera avevo già finito e non sapevo che fare.
Così mi venne l’idea di stendermi sul letto e ripetermi le preghiere da solo. Potevo andare avanti per ore, supino e immoto, fino ad attraversare il varco fra la veglia e il sonno.
Mano a mano quella soglia l’attraversavo con sempre più grande noncuranza, senza notarlo. La notte si confondeva con il giorno, la veglia col sonno e la realtà aveva perso ogni solidità. Non c’era tempo né dolore né vita né altro che questo stordimento: nient’altro che le mie preghiere.
Unico spigolo in questa mia nuova realtà, in cui anche il tempo a casa e quello al lavoro si erano confusi e scorrevano in serena alternanza, era l’incontro col Gruppo.
Dovevo uscire apposta, una volta a settimana, interrompendo il flusso.
Cominciai così ad accorgermi del peso che aveva acquisito la strada che portava alla parrocchia, l’unica a sembrarmi così grave e stonata e interminabile.
Qualcosa in me prese la decisione al posto mio: smisi di pensarci, e non andai più.
Cap7.
Un giorno stavo peggio del solito. Negli ultimi tempi, capitava che il torpore che mi circondava si dileguasse, rimpiazzato da un pungente mal di testa e una sensazione di fastidio e insofferenza. Quel giorno il mal di testa era più acuto e il fastidio più intenso. E poi ero anche raffreddato.
Era il mio giorno libero; mi alzai dal letto e, per la prima volta da settimane, o mesi? , uscii di casa senza una meta.
Gironzolai fino al “parco” che c’era dietro la mia scuola elementare: due alberi in fila con in mezzo una panchina di ruggine e un pavimento di mattoni sconquassati. Passare da lì mi aveva sempre aiutato a pensare.
Arrivato, vidi che sulla mia panchina stava un ragazzo della mia età, scomposto, le gambe aperte e i gomiti larghi sullo schienale. Portava abiti larghi e colorati, a strisce verdi gialle e rosse, insomma era un normale fricchettone, e m’accorsi che da bravo esponente della sua specie teneva fra le dita un sottile involto bianco, da un’estremità del quale si sprigionava nell’aria una sinuosa scia grigia.
Pareva in pace, beato persino, e completamente per i cazzi suoi.
Poteva essere la prima persona a cui facevo caso in settimane.
Il suo aspetto sereno – appariva semplicemente buttato là come i mattoni che gli sottostavano – non intimidiva, anzi ispirava al dialogo.
Mi avvicinai: – ehi.
– Ehi.
– Posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Mi pari molto sereno.
Rise, un sorriso arrogante e simpatico. Si chiedeva che cazzo volevo ma non aveva niente da fare e sarebbe stato al gioco.
– Come mai sei così sereno?
– E perché non dovrei?
Già, perché? Non sapevo che dirgli. Troppo lungo spiegargli tutto, e comunque in quel momento mi sembrava di averlo dimenticato io stesso. Dissi una cosa qualunque.
– Non c’è qualcosa che dovresti fare? Qualcuno o qualcosa che dipende da te?
Fece spallucce mentre tirava, poi riassunse la sua posizione, un tappeto steso al sole, che prendeva la forma della panchina.
Non capivo neanche io che senso avessero le domande che gli facevo, sembravo un attore impreparato che leggeva dal gobbo, mi sentivo un deficiente ma ormai ero nel gioco e continuavo.
Mi venne un’idea, qualcosa che mi pareva più sensato:
– Non pensi mai alla tua anima?
– Alla mia anima?
– Esattamente. Te ne stai lì a non far nulla.
– E come dovrebbe questo far male alla mia anima?
Ancora una volta rimasi zitto. Finalmente trovai qualcosa di ancora più profondo a cui attingere.
– Ma non hai paura della morte?
– Boh. Sto qua, non ci penso. Ma tu perché ci pensi? Che c’hai qualche cosa?
– Tutti dobbiamo morire… – cavolo che cagata. Chissà dove l’ho presa. Guardo il sole che si rifrange sulla panchina, e l’erba che sbuca fra i mattoni e le cicche per terra e tutti insieme mi dicono “ma che cazzo dici”. Ma ormai ci sono dentro. Andiamo avanti.
– Tutti dobbiamo morire… Ed è meglio arrivarci preparati. Preparare la propria anima.
Per la prima volta vidi lui farsi appena un po’ pensieroso:
– Tipo?
– Beh. – non volevo dar via il mio mondo, arrivare al punto, così velocemente, senza sottili e scenografici preamboli, ma non mi veniva in mente niente – Io ad esempio mi raccolgo in preghiera. Molto.
– Ah. E dici che sei più pronto?
– Certo.
– Se lo dici tu fratè! Felice per te!
Non voleva neanche dissentire!
– E tu che fai? – Gli chiedo
– Che, ora? Non lo vedi, sto qua.
Non sapevo che cazzo dirgli, eppure non m’andava di salutarlo. Mi incuriosiva la sua pace, cazzona e maleducata.
Aspetto un altro istante. Respiro a fondo: preparo l’ultimo colpo. Qua o si fa almeno un punto o si passa per coglioni.
– Ma tu, non hai paura dell’Inferno?
Non fece una piega, il che fece venir da ridere anche a me. A un certo punto si raddrizza sulla sedia, si protende alla mia volta e gesticolando con la mano come se stesse ficcando una puntina da disegno nel vuoto mi fa:
– La vita dopo la morte? L’Inferno? Amico, se c’è un inferno, stai tranquillo che è lì che vanno i pusher. Di sicuro senza non si resta.
Lo guardo, mi guarda, ci mettiamo a ridere.
—
Oggi ho quattro anni in più. Ho ripreso a frequentare i miei amici e a fare le stesse cose di una volta, vado al bar e guardo film, lavoro come prima, la padrona urla, io segretamente m’incazzo e poi mi passa. E quando sento il bisogno ogni tanto di “qualcosa di più”, quando mi sento in colpa, o nel buio di un vicolo mi sembra di scorgere richiami lontanissimi, faccio un salto da quel tizio del parco, e con quindici euro metto tutto a posto.